martedì 30 ottobre 2012

Apologia felina n.2 - Gatti Belli Grassi

Wikisbiri 


Sbirignigni, che per comodità chiameremo Sbiri, è il gatto di una delle mie secolari amiche, Nicole Genoni.
Inizialmente viene chiamato Piduz, nome che gli viene poi tolto per l'imbarazzo di doverlo comunicare al veterinario. Verrà battezzato allora come Matisse, nome certo più aristocratico e nobilitante. Non ci siamo ancora,  perché nessuno di questi due nomi rende ragione di una cosa: l'istinto di toccarlo appena ce lo si trova davanti, accompagnando i palpeggiamenti della sua ciccia con strani suoni onomatopeici. Perché è questo l'effetto che fa, l'hanno testato clinicamente i laboratori  l'Oréal (test che porterà il felino ai vertici della classifica dei gatti più ricchi del mondo, ma questo all'epoca non lo sa ancora nessuno).
Ecco allora che al suo terzo battesimo, si rende ragione di ciò chiamandolo Sbirignigni.
Sbiri nasce quasi vent'anni fa e in seguito ad un intervento estetico svoltosi al San Raffaele di Milano, comincia ad ingrassare.  Essendo un esemplare particolarmente furbo riesce a farsi fotografare solo dai suoi profili più fotogenici e snellenti, assumendo pose suadenti e sornione che spostano l'attenzione dalla sua pancia (vedi foto sopra).
Per amore del vero, ho paparazzato Sbiri per un pomeriggio intero e questo post è il mio reportage sull'esemplare migliore di gatto-bello-grasso dopo Orazio.

Sbiri è largo come uno schienale, ma potrebbe raggiungere ulteriori estensioni. Come Blob, infatti, ambisce ad occupare lo spazio adattandovisi e assumendo le più svariate forme.


Sbiri ha in realtà uno sguardo vivace e attento. Lo dissimula per cercare di indurvi a pensare male di lui, per poi querelarvi  per diffamazione e calunnia.




Sbiri vi riceve quasi sempre in salotto e vi offre del brandy e un buon sigaro in cambio di compagnia e di un chilo di carne, possibilmente filetto o tagliata. Vanno bene anche carni bianche, purché imburrate, per mantenere costante la percentuale di grassi giornaliera.

A onor del vero è  un simpatico chiacchierone: probabilmente vi racconterà di come, da piccolo, non si sia mai veramente accorto di cadere dal balcone.


Sbiri è un innovatore, indotto dalla sua curiosità a compiere gloriose imprese.
E' l'inventore, tra le altre cose, di una tecnica di caccia al pesce rosso che consiste nel bere tutta l'acqua della boccia, aspettare che il pesce muoia e mangiarlo subito dopo.
Finora non è mai riuscito nel suo intento a causa di una fuga di informazioni che ha sventato il suo piano.




 Sbiri è un vero sportivo, oltre che un filosofo: nessuno è mai riuscito a confutare il suo sillogismo secondo cui "fare movimento significa fare sport, sto muovendo le orecchie e la coda, faccio sport". 

Sbiri è anche eunuco. Le malelingue dicono che l'operazione a cui è stato sottoposto in giovanissima età sia in realtà una precisa scelta di genere. Sbiri non ha mai smentito, nascondendosi dietro al suo sguardo enigmatico ogniqualvolta si sollevasse l'argomento.


Sbiri non ama mostrare le zampe. Da questo comportamento poco trasparente deriva la sua fama di faccendiere in campo felino. Pare che i magistrati abbiano intercettato ingenti capitali smossi per approvvigionare le sue dispense, senza aver ancora capito da dove arrivino questi soldi. D'altra parte il nostro ha un alibi di ferro, essendo ai domiciliari in un appartamento al terzo piano, dal quale non si è mai allontanato (salvo la già citata caduta dal balcone).



Sbiri è il gatto più amato dagli ospiti di casa Genoni. Con la sua gaiezza e la sua estroversione, è impossibile sospettarlo di tutte le maldicenze che girano sul suo conto (come quella che lo vuole sempre pronto ad azzannare la mano che gli si appropinqua per tastarlo).







Recentemente Sbiri ha aperto una società che si occupa di vendita e smercio di cibo biologico per gatti, entrando nel pool di azionisti della nota catena di supermercati Arcaplanet.
Nel 1999 Sbiri ha pubblicato con Mondadori il romanzo semi-autobiografico "Se 100 metri quadri".
Dal 2002, in seguito alla forte presa di coscienza della sua sessualità negata,  fa parte dell'associazione Arcigay ed è uno dei più attenti e attivi sostenitori delle campagne di sensibilizzazione legate alle tematiche GLBT.
Nel 2004, dopo lo scandalo l'Oréal, rilascia un'intervista all'Economist, in cui dichiara la sua estraneità ai fatti. Subito dopo, Cosmopolitan lo nomina Gatto dell'Anno e Oliviero Toscani gli dedica un intero servizio fotografico.
Dal 2005 è direttore editoriale e artistico della rivista "Pussy cat".

La foto potrebbe dare un'idea  delle dimensioni reali di Sbirignigni. A confronto con un piede umano le dimensioni in scala sono di circa 1:15. 





mercoledì 10 ottobre 2012

Cinque generazioni di fenomeni.

Uno dei molteplici scopi per cui un blog come questo esiste, è quello di creare delle tracce di appunti più o meno dettagliati per la mia futura autobiografia, che sarà di qualche migliaio di pagine e verrà fatta leggere a ogni cittadino sin dalla prima alfabetizzazione, come quella di Kim Jong-il.

In realtà l'azione scatenante di questo post è uno degli atti inconsapevolmente geniali di una donna il cui senso estetico è molto vicino a quello di Benny Lava: mia madre.
La mia mamma è nota per essere una donna di polso, che prende decisioni irrevocabili in un batter di ciglia e senza scomporsi minimamente. Con lei il danno è sempre fatto, ancora prima che possa essere concepito.
Come dicevo,  infatti, è stata lei in realtà a dare vita a questo post: con il candore degli ignari,  ha fatto ingrandire una vecchia foto risalente al periodo del mio battesimo a dir poco compromettente. Questa foto, che ha subito provocato un moto di irrefrenabile ilarità in me e mio fratello:



Vi siete ripresi? Bene, ora posso iniziare a narrare.

L'importanza dell'immagine di cui sopra deriva dalla sua potenza riassuntiva: vi sono infatti ritratte cinque generazioni di donne della mia famiglia, cinque tappe fondamentali della storia della mia vita.

Al centro, come potete vedere, ci sono io, che per l'occasione sfoggio una tunica bianca che "manco er Papa" e sbadiglio, messicanamente svaccata tra le braccia della mia genitrice, che mi regge fiera come se fossi un piatto di portata. Su di me non c'è molto da dire, ho la stessa faccia di adesso e le mie cellule stanno covando una serie di atti leggendari che verranno espletati più avanti.

Ma andiamo con ordine, partendo dal ramo principale: a destra, di nero vestita e con l'immancabile borsetta-salvavita, Filomena Marelli detta Nonna Filo, la mia bisnonna. Vi fermo subito: se pensate di aver trovato un'oggettiva e inconfutabile prova delle mie origini mediterranee, vi sbagliate. Filomena è più del nord di tutti voi, è solo che ci piacciono le contraddizioni. Purtroppo non l'ho conosciuta a fondo, ma a lei va il merito di aver sfornato ben quattro figlie, una sorta di "famiglia Alcott" de noantri, le Piccole Donne del nervianese: Maria, Emilia, Loredana e Luigia. Ovviamente io sono sempre stata orgogliosissima di avere per bisnonna una sorta di Ispettore Gadget: la "nonna-filo"! Non mi toglierete mai dalla testa che aveva dei super-poteri. Senz'altro era una profeta, ancora adesso porto sul capo la sua pesante condanna: "sarà il bastone della tua vecchiaia", disse un giorno a mia madre.

Maria Dellavedova (sulla sinistra), la primogenita, è la mia nonna, ma sarebbe più corretto chiamarla Nonna Mariuccia, perché ho scoperto il suo vero nome solo in tarda età: a lei devo un sacco di cose e sono certa di somigliarle parecchio. Come lei, infatti, non ho pazienza e basta veramente un nonnulla per accendere un fuoco di fila di improperi, in cui sono quasi insuperabile (mi batte, per ora, mio fratello). Sono sicurissima che arrivi da lei la filosofia dei "mestieri" di casa come terapia: se gli inglesi dicono "when in doubt, bake a cake", noi diciamo "cuand ta s'è inversa, fa' i miste'"! E via! A lei devo anche e soprattutto un senso di superiorità genetico nei confronti dell'uomo "maschio" e dell'uomo in generale: avreste dovuto sentire gli affettuosissimi epiteti  appioppati al Nonno Mosè, con cui ce l'aveva particolarmente. Infatti tra loro due era in corso una faida che manco i Montecchi e i Capuleti: qui si parla di operai (la famiglia di mia nonna, i Dellavedova, e mia nonna stessa) contro "paisan", i contadini, ovvero i Croci. Per dirne una, mio nonno era sempre "urdinari 'me el boeu" che è un modo carinissimo per definire la sua raffinatezza. In realtà, qualsiasi rappresentante del genere umano veniva di tanto in tanto battezzato e registrato sotto le varie categorie di "matòc", "piugiat", "pujana" e via dicendo. Una filantropa, mia nonna. Riassumendo, a lei devo anche:
- il bilinguismo italiano-dialetto
- la mia abilità estrema nel taglio delle verdure (si partiva alle 17:00 del pomeriggio, quando non alle 16:30, con la preparazione del minestrone)
- la tendenza al pettegolezzo, sviluppata dalla sua emeroteca di riviste scandalistiche (Visto, Chi, Oggi e chi più ne ha più ne metta)
- l'abitudine ormai inestirpabile di trovare almeno un soprannome per ogni persona che conosco.

Ora, se dico che la nonna Filo è il filo rosso che passa attraverso le generazioni e ci porta a mia madre  non prendetemi in giro: la nonna-bis è stata un filo in tutti i sensi, perché ha dato il là a generazioni di sarte (io, devo ammettere, rappresento un tragico salto generazionale). E qui arriviamo a mia madre, l'insuperabile e inconfondibile donna al centro della scena, Rosadele Croci. Su di lei ci sarebbe un libro da scrivere e mi trovo in grande difficoltà nel limitarmi. Nasce nella "curta dei Crus" in un giorno di eclisse, e questo sarebbe sufficiente a convincere tutti gli scettici sull'influenza degli astri sulle persone. E' eclettica, un tornado di stati emozionali che sconvolgerebbe qualsiasi psichiatra: nessuno riesce a parlare quanto lei, con la sua velocità e usando una sintassi contorta come la sua. Diciamo che, nel mezzo di ogni suo monologo, si concede una pausa respiratoria di un quarto di secondo ogni mezz'ora.
Ha il piglio sarcastico della nonna Mariuccia e la grazia e il tono di voce del nonno Mosé, e la loro granitica etica (alla fine mio nonno e mia nonna qualcosa in comune ce l'avevano). Sì, perché "quel che è giusto è giusto" ( e non cito l'infinita serie di espressioni ricorrenti che utilizza in ogni enunciato).
Oltre a essere una mamma hard core, di quelle che ti mettono in pericolo di vita appena si muovono, è anche una sarta ammirevole (con una propensione per i colori lisergici e le fantasie optical  floreali), una lettrice instancabile, un chimico (Di Bella je fa 'na pippa!) e una scassamaroni di primissima categoria. Ancora oggi sospetto che mi abbia sempre taciuto il suo lavoro alla CIA come torturatrice psicologica. Una sua domanda non può mai, MAI, essere lasciata senza risposta. Scordatevelo proprio.
Tra le sue manie figurano anche i centrini di pizzo e l'astrologia: se passate da casa sua, oltre a subire un terzo grado sul vostro albero genealogico, la vedrete rivangare nel cassetto del tavolo della cucina e sfoderare uno dei suoi strumenti di tortura, l'oracolo tibetano! Vi dirà cose su di voi che nemmeno sospettavate, dovreste provare!
E' anche altre tre cose: un database vivente (conosce tutti, sa dove sono tutte le cose della casa, conserva tutte le mie bollette, ecc.), un'infermiera mancata (ha già la diagnosi in tasca dopo il primo sintomo e non sbaglia mai) e una stylist impareggiabile.

Avrete notato uno dei suoi capolavori di stile nella foto, l'outfit di mia sorella, Viviana Patregnani. Adina (perché così chiamo mia sorella) è stata la sua principale modella, e su di lei l'accostamento di colori lisergici ha raggiunto apici indiscutibili di bellezza. Ricordo ancora con le lacrime agli occhi una foto che la ritrae in tutina in acetato blu elettrico, calze di nylon verde mela e ballerine rosse. Questi abbinamenti l'hanno segnata per sempre, come l'ha segnata il praticissimo e spartano taglio di capelli che Rosadele le inflisse sin dalla prima infanzia: una rapatura marziale stile combat-lesbo, che anche io ho subito all'età di tre anni allo spuntare dei primi boccoli minacciosi di femminilità. La rapatura di mia sorella era però anche una figlia dei suoi tempi che gradualmente si trasformò in mullet.
Adina è ormai diventata madre a sua volta, ma mi piace ricordare i tempi in cui era solo la mia sorellona premurosa: a parte chiudermi la testa nella porta durante una lite con mio fratello, devo ammettere che da lei ho tratto molti benefici. Rappresenta il lato razionale e umano della famiglia, in tutto e per tutto: in lei tutti i conflitti si risolvono. Proprio per questo, è stata materia prima su cui forgiare le mie abilità. Su di lei ho ricamato una storia bellissima, che potrebbe diventare un film d'animazione. Ci ho creduto talmente tanto in questa storia che l'ho trasfigurata nel mio personaggio: infatti lei è Ada Ben, una bambina robustella e un po' speciale che vive chiusa in una torre, a dir poco taurina e brusca di modi. A dire la verità il personaggio le calza a pennello, tanto che nella mia famiglia, per indicare dei modi di fare un po' rustici e decisi diciamo "adoso".  Ad esempio è adoso il suo modo di appoggiare il bicchiere sul tavolo quasi sfondandolo; una volta ha perfino messo a repentaglio l'antichissimo talamo nuziale dei miei nonni sedendocisi sopra. Ha una sfilza di nomi, ognuno dei quali è collegabile a qualche cosa che ha colpito la mia infanzia, ad esempio la Tata del Conte Dacula o le "lezioni di sesso con Dolores" di Mai Dire TV. Da tante associazioni di questo tipo è nata Ada Ida Oda Viviana Cesira Dolores Samantha Rosalba Hilda Matilda Bina Palma Ursula Augusta Ben (questo il nome completo).

Non fatemi dire altro, se avete bisogno di racconti succulenti basta chiedere: per ora vi basti questo sunto su cinque generazioni di fenomeni. 







lunedì 1 ottobre 2012

Apologia felina n.1

Ho scoperto di volere un gatto con tutte le mie forze. All'inizio sublimavo il mio istinto materno nei confronti di questi felini ricoprendo di sfottò l'istinto paterno di un mio amico nei confronti della sua gatta, Dharma. Ho addirittura aperto un gruppo su Facebook dedicato a lei, con lo scopo primario di raccogliere donazioni per la sua sterilizzazione, che le avrebbe permesso di uscire libera in giardino, lontana dall'occhio indagatore del padre-padrone. Poi il gruppo è diventato un inno alla liberazione sessuale della suddetta gatta. Infine è rimasto solo un pretesto per condividere cazzutissimi meme sui gatti con persone che ancora oggi non mi vedono di buon occhio.

Con lo scopo di aggiornare il gruppo perorando la causa di Dharma, mi sono data alla ricerca ossessivo-compulsiva di immagini stupide di gatti come questa :


A furia di guardare centinaia di foto di gatti, sempre impareggiabili nelle loro pose ed espressioni rispetto a qualsiasi altro essere vivente, il mio amore atavico per loro continuava a crescere a dismisura. Ho persino cambiato la mia immagine profilo di Facebook (e tutti comprenderanno l'importanza della questione data  la portata di un tale gesto) mettendoci un gattino incoronato da putti di Tokuhiro Kawai.

Il passo successivo non poteva che portare alla luce il mio inconscio attraverso la  principale attività che svolgo: la lettura. Tra tutti i libri impolverati che mi circondano e che non ho ancora letto ne ho scovato uno, di cui conoscevo l'esistenza ma che avevo tenuto volontariamente e freudianamente lontano dalle mie grinfie: Io sono un gatto di Natsume Soseki.

491 pagine di racconto della vita di un gatto raccontata dal gatto stesso. Con un ricco apparato di note e delucidazioni sugli elementi di cultura giapponese che compaiono nel racconto. Ce l'ho fatta

Chi mi conosce sa che sono deprecabilmente pigra, e che spesso, nonostante la mania, il volume di un libro può diventare un elemento discriminante per procrastinarne la lettura. Dunque, se mi sono smazzata il malloppazzo, per dirla con un'allitterazione, vuol dire che ero effettivamente attirata da ciò che un gatto potesse dirmi di sé. Ero pronta per iniziare ad affrontare la realtà: il primo scalino, il contatto con la carta e con le parole, era conquistato. 

Se non che ho scoperto, decine di pagine dopo e con un pizzico di disappunto, che il felino senza nome, nonché io narrante della storia, non era assolutamente interessato al mondo dei gatti, ma a quello degli uomini. Ma ecco la folgorazione:  i nostri pensieri erano frecce di un cupido allo specchio. E' stato amore. Se tu mi vuoi, io ti voglio. 

Vincendo la resistenza iniziale mi sono abbandonata alla minuziosa e implacabile osservazione del genere umano, scoprendo un'affinità incredibile tra me e il felino senza nome: siamo due portinai mascherati da pensatori e due filosofi prepotentemente calati nel quotidiano


La conclusione di questo sproloquio è che voglio un gatto. Se qualcuno di voi ipotetici lettori mi potesse aiutare nell'impresa si faccia avanti!

Rendo grazie pubblicamente:

  • alla mia anarco-socia a delinquere nel situazionismo Vally, senza il cui prezioso aiuto non avrei mai potuto realizzare e mantenere attivo il gruppo Facebook "Aiutiamo la gatta di Cili ad emanciparsi sessualmente";
  • ai giapponesi e al loro amore per i gatti;
  • a Sbirignigni, il gatto di Nicole, che merita un post a parte;
  • al gatto senza nome del libro, che mi ha dato coraggio nel continuare ad essere come sono. Per questo lo cito rendendo grazie.