lunedì 5 dicembre 2011

"Miki sono io".

Siamo all'Arci Bellezza di Milano, un baluardo della controcultura meneghina, un po' abbandonato in questo buio lunedì lavorativo. José Ovejero e il suo amico e traduttore Bruno Arpaia, seduti davanti al palco, provano a raccontare questo libro; difficile. Un anno nero per Miki. Andiamo per gradi.
José Ovejero è la voce senza patria di un esiliato per scelta: uno che non appartiene a nessun luogo, uno che osserva e descrive, spolpando la trama fino all'osso. Un anatomopatologo della letteratura, della realtà. La storia di Miki è didascalica rispetto a questo lato dello scrittore madrileno, ora residente a Bruxelles. Per lui, scrivere bene non corrisponde ad avere uno stile preciso: significa prendere distanza dai personaggi, trovare uno stile adatto e raccontare la loro storia.
Chi è Miki: Miki è un mostro. Miki è una persona insensibile, indifferente, vuota. Non ha pietà; leggere la sua storia è come scavare una fetta d'anguria con un cucchiaino. Ci si deve arrendere ai fatti, ci si deve entrare di testa per scoprire di non essersi fatti male, come se avessimo un cuscino legato intorno agli occhi. Per scoprire che nemmeno noi proviamo dolore per la morte di Boris, il figlio di Miki, né per quella di Verena, sua moglie.
Due morti strane, vicine nel tempo e circondate da un alone di mistero. Ma se state cercando un noir, un giallo o un thriller, questo non è il libro giusto. Un anno nero per Miki è semplicemente la storia di un uomo, o almeno di una parte della sua vita, vissuta con il suo paraocchi; è la tragica vicenda umana di un quarantenne, che non si sente più giovane ma che scappa dalla vecchiaia, troppo intelligente per farsi ingannare dagli specchietti del successo, troppo stupido per riuscire ad amare davvero qualcuno. Miki è uno che scappa: dal dolore, dai rapporti umani, dalla vita vera. Si rinchiude nel suo guscio fatto di internet, alcool, GHB, porno. Prova ad amare giusto per avere la conferma che è la solitudine quello che gli resta, perché ciò che lui cerca è una freschezza adolescenziale che gli è stata tolta per sempre. Miki ha solo desideri, nessun ricordo. E' l'homo sapiens che guarda al gradino successivo: solo che per quelli della sua specie non funziona così. La civilizzazione, con tutti i suoi oggetti asettici, le armi, le droghe sintetiche, i preservativi, quella è già arrivata. Non rimane nulla da scoprire, nessun traguardo possibile. Miki si è trasformato nel guscio in cui si è nascosto, quando ha smesso di ricordare.
Quello che si prova leggendo questo libro: non c'è niente da capire, niente da scoprire. Nessuna traccia da seguire per smascherare assassini, nessun racconto di vite passate, nemmeno troppa psicologia dei personaggi. Solo un pilota automatico, con le sue crisi di panico. Che sia un romanzo camp? Un'operazione di pop art, dove in quello che vorrebbe essere il climax (che poi si affloscia come certe torte cotte male) le immagini dell'attentato alle Torri Gemelle si alterna fino a sovrapporsi a quella di una fellatio.
Ovejero non ha paura a confessare: "Miki sono io. Miki è come ognuno di noi, quando cerchiamo di sfuggire a certe regioni oscure della nostra esistenza. La letteratura, in questo caso, è un po' la voce della nostra ombra".